Intervista a Mario Berruto


Laureato in filosofia, autore di libri in tema di sport e non solo, dal 2010 è commissario tecnico della nazionale italiana di pallavolo maschile con cui ha conquistato la medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici Londra 2012, la medaglia d’argento agli Europei 2011, la medaglia di bronzo nella World League 2013 e 2014, la medaglia d’argento Europei 2013, la medaglia di bronzo nella Grand Champions Cup 2013. Per il congresso di Sportmeet ha rilasciato in esclusiva questa intervista.

Valore e criticità della competizione nello sport è il titolo del congresso di Sportmeet. Per te la competizione è un valore o è una criticità?

La competizione, intanto, è una realtà. Credo che in ogni aspetto della nostra vita, da quando siamo studenti a quando entriamo nel mondo del lavoro, e naturalmente, a maggior ragione, per gli atleti, la competitività sia un elemento essenziale. Fa parte del nostro quotidiano ed è, come dire, un qualcosa con cui si ha a che fare tutti i giorni. Credo che lo sport non faccia altro che dare all’aspetto agonistico, da questo punto di vista, delle regole e degli obiettivi da raggiungere. Naturalmente lo sport si differenzia da altri settori perché nello sport questo modo di affrontare la competitività non passa che attraverso il merito: non è così dappertutto, dovrebbe esserlo forse, ma probabilmente non lo è. Lo sport, da questo punto di vista, trasforma la realtà che ci circonda, che è fatta di competizione, in una competizione che segue delle regole, delle regole che deve seguire naturalmente in modo da poter essere giocata.

La pallavolo è uno sport con delle specificità, uno stile, un contesto del tutto particolare. Quale è il contributo della pallavolo alla dimensione competitiva nello sport?

Io credo che la dimensione competitiva dello sport offerta dalla pallavolo, sia quella dell’esaltazione dello sport di squadra: credo che la pallavolo possa insegnare, forse più di tanti altri sport, quanto l’obiettivo possa essere raggiunto attraverso la squadra, anzi, non possa che essere raggiunto attraverso la squadra. È un elemento che forse complica l’aspetto della competizione, l’aspetto agonistico, perché naturalmente le dinamiche all’interno di una squadra non possono prescindere da quello che ha fatto qualcun altro prima di te o che farà qualcun altro dopo di te. Questo è un insegnamento che la pallavolo regala a chi la pratica e che nasce dal suo regolamento. Il nostro gioco, mi verrebbe da dire, è l’unico gioco al mondo dove è vietato fermare la palla o dove è vietato toccarla due volte consecutivamente, uno sport dove non si può controllare la palla, dove il passaggio è obbligatorio. Mi piace l’idea che la pallavolo possa contribuire a questo tema: c’è un tipo di competizione che noi viviamo molto spesso, che è molto individuale e molto fondata su noi stessi, su quello che facciamo, su come ci prepariamo, sul modo in cui affrontiamo la sfida; e c’è un tipo di competizione che invece è bello affrontare insieme ad altre persone. La pallavolo mette in luce sicuramente questo secondo aspetto.

Lo sport, si afferma, ha un valore educativo, sociale, salutare, politico, oltre a quello competitivo. Ma è davvero così? A quali condizioni?

Sicuramente lo sport è fondamentale in tanti aspetti del vivere civile. Mi viene in mente il primo, forse il più importante, che è quello nel settore della salute. Sarebbe meglio parlare di pratica sportiva, perché a volte, quando parliamo di sport, pensiamo all’aspetto più agonistico, l’aspetto legato al risultato. Lo sport praticato, quindi la vera cultura sportiva, è patrimonio di tante parti del mondo: basti pensare al mondo anglosassone, ma anche a quello del nord Europa, che insegnano uno sport praticato, fatto, non solo guardato. Questa attività sportiva, e lo confermano centinaia di migliaia di pagine di evidenze scientifiche, è un investimento sulla salute, che tra l’altro ha un ritorno molto quantificabile in termini di risparmio che genera al servizio sanitario nazionale. Lo sport praticato credo che si possa ritenere oggi un fenomeno positivo per il benessere individuale: per questo la pratica sportiva che mi permette di stare meglio fisicamente è quasi un dovere civile, perché sappiamo quanto il nostro servizio sanitario nazionale sia sottoposto a sforzi estremi per poter garantire il diritto alla salute, un diritto tutelato dalla nostra costituzione. Quindi fare sport, praticare sport è oggi davvero un dovere e un atto di civiltà.

Lo sport è dunque un investimento dal punto di vista sociale?

Assolutamente si. Lo è quello che abbiamo appena citato, lo è in termini anche quantificabili, proprio economici rispetto al tema della salute, ma credo sia innegabile che lo sport sia uno strumento privilegiato per tante situazioni che oggi sono un po’ problematiche per la nostra società. Mi viene in mente, per esempio, il tema dell’integrazione. Quanti mediatori culturali fanno lavori molto complessi e molto importanti, magari nelle scuole, e poi invece, quanti allenatori, magari dilettanti, non consapevoli, ogni domenica mettono insieme squadre dove giocano ragazzi che arrivano da tutte le parti del mondo. Questa è la realtà della nostra società oggi, ed è bello che sia così perché è una ricchezza che noi dobbiamo cercare di leggere in questa maniera, perché far passare la palla a due ragazzi che arrivano magari da due paesi diversi, è un azione di integrazione sul campo, in pratica. E poi lo sport, lo sappiamo bene, insegna una capacità di rispettare le regole ed insegna a rispettare anche coloro che sono chiamati a far rispettare quelle regole, un tema di cui dovremmo riappropriarci in questo momento storico del nostro paese.

Hai affermato che lo sport è “uno strumento privilegiato per farci sognare”: puoi spiegarci di più?

Ritengo che lo sport sia uno strumento privilegiato per farci sognare, così come ritengo che la magnitudine di un campione sia proporzionale alla capacità di far sognare chi lo guarda. Per una ragione molto semplice: lo sport è uno dei pochissimi linguaggi universali rimasti. Lo è forse la musica, lo è un certo tipo di arte,  ma lo sport oggi è davvero uno strumento trasversale e universale che viene parlato. Ovviamente anche in questo caso ci può venire in mente il calcio, ma va bene anche questo, nel senso che la dimensione, la profondità, la capillarità di recapito di un messaggio come quello dello sport lo hanno pochissime cose al mondo; neanche certi fanatismi religiosi riescono ad arrivare là dove invece lo sport riesce a parlare. Pochi giorni fa ero in visita, nella mia città, Torino, ad una zona ad altissima densità di popolazione straniera; parlavo con gli insegnanti, con il preside di questa scuola media, ed essi mi raccontavano che il problema, molto spesso, nella scuola è il linguaggio, ovvero gli insegnanti e gli alunni non riescono a comprendersi, proprio da un punto di vista terminologico. E loro mi dicevano: “noi molti problemi li risolviamo grazie allo sport che riesce a parlare un linguaggio universale”.

Qual é la tua definizione di campione?

C’è una prima definizione di campione nello sport che è quella che ci viene in mente quando pensiamo alle telecronache sportive, ai grandi eventi sportivi ed è quella che definisce campione colui che è in grado, per esempio, di risolvere una partita da solo, che è  capace di determinare il risultato grazie al proprio talento, grazie al proprio sacrificio, grazie alle abilità individuali. Nel mio sport questo concetto di campione quasi non esiste: ognuno degli atleti, ognuno dei pallavolisti sa che da solo davvero non può incidere sul risultato di una gara. Noi abbiamo un solo fondamentale che si fa in modo individuale, che è la battuta: tutto il resto è dipendente da qualche cosa che succederà prima o dopo di te. Quindi a me piace parlare, anche se è un po’ un ossimoro, di egoismo di gruppo. Quella capacità tipica di certi atleti e di certi individui di assumersi la responsabilità di guidare e di trascinare gli altri, nella pallavolo è capacità di squadra quando è la squadra che decide di farlo. Credo che anche questo sia un bel messaggio. Oggi forse ci aspettiamo anche noi tanto in termini risolutivi da qualcuno che arrivi e che in qualche maniera, magari magica, possa risolvere le cose da solo. Invece non è così e lo sport, e la pallavolo in particolare, lo insegnano.

Ci spieghi la tua formula per l’eccellenza

Intanto se ci fosse una formula per definire l’eccellenza, saremmo tutti molto felici perché la potremmo applicare. Proverò a tratteggiare una mia idea, anzi non è solo una mia idea, ma un idea condivisa con un amico e un grandissimo professionista che si chiama Giuseppe Vercelli, psicologo dello sport, grande esperto di eccellenza nella prestazione umana, non solo in quella sportiva. Se si potesse scrivere una formula matematica, io la scriverei come una moltiplicazione fra capacità tecniche e capacità emozionali. Le capacità tecniche sono decisive, sono fondamentali, ma non sono l’unica cosa che serve per creare un risultato di assoluto successo. Le capacità tecniche nello sport sono facilmente identificabili: sono l’organizzazione, la programmazione, la metodologia dell’allenamento. Queste capacità però vanno moltiplicate, e si possono moltiplicare, per un altro fattore che invece sono le capacità emozionali. La buona notizia è che anche queste sono allenabili, cioè esiste un percorso che permette di migliorare questi aspetti. Questi due fattori si moltiplicano tra di loro e quindi quando uno dei due, come dire, è un po’ basso, l’altro, se è molto alto, può tenere alto il prodotto finale della formula. E poi questa formula la completerei con una linea di divisione, dove al divisore scriverei il metodo. Io non sono esperto di matematica, tutt’altro, però una delle cose che ricordo del liceo è che se noi scriviamo un numero molto alto al divisore, il risultato finale della formula si abbassa decisamente. Quindi se noi vogliamo ottenere il miglior risultato possibile e vogliamo garantire il miglior risultato possibile a questa formula, al divisore dobbiamo scrivere “uno”, il metodo deve tendere all’unicità. E questa è una riflessione che faccio spesso, anche quando incontro i miei colleghi allenatori. Molto spesso emerge come la complessità della metodologia sia un tema che interessa molto chi si occupa di categorie inferiori: chi lavora a livello più basso cerca disperatamente un metodo molto complicato, molto complesso. Invece, man mano che la qualità dell’allenatore sale e questo allenatore si occupa di categorie professionistiche o di competizioni internazionali, è incredibile come questa ricerca del metodo tenda veramente ad asciugarsi: diventa cioè più importante quello che tu riesci ad eliminare, a togliere da tutto quello che hai fatto nella tua carriera. Se io potessi scrivere o definire quello che per me è il metodo “uno”, cioè il metodo tendente alla semplicità assoluta, userei un’altra parola che è la parola “atteggiamento”.

Hai un messaggio per i partecipanti al congresso di Sportmeet, persone animate dal desiderio di contribuire a costruire la fraternità fra gli uomini nello sport e attraverso lo sport?

Io non ho un messaggio, ho un ringraziamento per chi partecipa a questo congresso: perché chi si occupa di sport in questi termini, chi si occupa di sport come strumento privilegiato, come dicevamo anche prima, di integrazione, di capacità, di lasciare messaggi positivi ai ragazzi che allena, è un eroe della nostra società. Noi viviamo in un paese straordinario, bellissimo per tante ragioni, ma dove la scuola ha un po’ dimenticato il mondo dello sport e quindi, per reazione, abbiamo creato una struttura molto capillare, fatta di associazionismo sportivo, che è una ricchezza straordinaria per questo paese. E’ un patrimonio vero, un patrimonio fatto di persone che, magari nel tempo libero o nei ritagli del tempo che hanno a disposizione, dedicano le loro risorse, le loro energie per portare avanti questo messaggio. Io tra l’altro, in qualunque sede, se potessi fare qualcosa, e naturalmente cercherò di farlo, ritengo che debba essere riconosciuta in maniera anche ufficiale la figura del volontario sportivo. Il volontario del mondo dello sport, oggi, è una figura che ha a che fare con delle complessità molto importanti e che noi dobbiamo, come dire, testimoniare e fare in modo di riconoscere che esiste e che svolge un ruolo decisivo nella nostra società. Quindi io non ho auguri da fare: ho davvero da inviare un ringraziamento di cuore, perché questo è uno dei motori del nostro paese. Naturalmente so che certe volte è molto complicato, ma ritengo che sia fondamentale insistere perché questo paese, che è già bellissimo, può diventare sicuramente ancora più bello grazie allo sport.