Testimonianza Maria Chiara Campodoni

Maria Chiara Campodoni
ex – pallavolista, Assessore allo Sport del Comune di Faenza

Quali concetti richiama la parola “competizione” ad un assessore allo sport?
La competizione delle società sportive nei confronti dell’amministrazione è un argomento molto interessante, che ha bisogno di una premessa a riguardo dell’importanza di vere politiche pubbliche per una crescita culturale della società, cosa che purtroppo non è mai avvenuta sul fronte del movimento sportivo.

Una politica pubblica, una legge statale, non significa per forza un finanziamento. Significa però riconoscere i vari attori sportivi, indicando il ruolo di ciascuno, il compito e le competenze richieste. Una sorta di carta d’identità del movimento sportivo che, fissando degli standard, dia un linguaggio comune per conoscersi ciascuno nel proprio ruolo. Questo ad esempio è avvenuto sul fronte degli asili nido e scuole materne, mentre non è avvenuto a livello sportivo. Lo sport nasce dentro le parrocchie, gli oratori, in associazioni private, ciascuna con il proprio fine (di solito positivo), ma senza che nessuno indichi o richieda standard per lavorare in qualità.
Purtroppo l’assenza di questo interesse pubblico si ripercuote a tutti i livelli, da quello statale a quello comunale, dove spesso lo sport è accomunato al settore cultura (che come lo sport vive di sponsorizzazioni calanti, quindi con una lotta tra poveri che lo vede spesso perdente) e a livello politico l’assessorato allo sport è spesso lasciato all’assessore più giovane o quello più sportivo (ma fare sport per se stessi non significa conoscere il mondo dello sport). Inoltre mentre durante la campagna elettorale ci diciamo quanto lo sport sia uno strumento fondamentale per la coesione sociale delle città, quando poi si tratta di formare i funzionari o investire economicamente lo sport è associato al tempo libero, quindi non è mai una priorità, e al massimo ci si limita alla gestione e manutenzione dell’impiantistica sportiva.
Non avere un linguaggio comune attraverso cui confrontarsi significa però non comprendersi nel vero valore di ciascuno, e di conseguenza rimanere sempre scontenti, dovendo accontentarsi di essere riusciti a strappare qualcosa in più dall’amministrazione, ma non tutto ciò di cui avrei avuto bisogno. Inoltre l’incomprensione e la scarsa conoscenza non c’è solo tra amministrazione e società sportiva, ma anche tra le società sportive stesse, che mettono in campo una guerra tra poveri dove non è solo importante raggiungere il meglio per me, ma stare ben attento che l’altra società non ottenga più di me. Se a tutto ciò aggiungiamo che le società sportive vivono anche dell’iscrizione degli atleti, ecco che ritroviamo un panorama che immagino conosciate bene, di lotta continua con l’altra società che pratica il mio stesso sport, di progetti scolastici fin dalla scuola materna per raggiungere quanti più bambini possibile prima di ogni altra disciplina sportiva,di richiesta palestre per poter lavorare con quanti più bambini possibile…
Anche nella mia città la situazione non è molto diversa dalle altre, purtroppo le palestre non bastano per dare risposte adeguate a tutti, e non abbiamo funzionari formati e competenti per valutare la qualità delle esperienze sportive.

Si può svolgere il proprio incarico di assessore allo sport in una prospettiva che dia valore alla relazione fra le persone, alla reciprocità, alla ricerca del bene comune e non solo al conseguimento del successo in termini sportivi o di contributi economici?
Attraverso alcuni piccoli episodi che ho vissuto in questi quattro anni di esperienza amministrativa, posso dire che due sono i canali principali per creare relazioni positive con le società sportive.
Primo: interessarsi al lavoro delle società sportive. Nei primi due anni di assessorato ho conosciuto tutte le società sportive della mia città, con numerosi incontri in ufficio (con presidenti e dirigenti), ma anche con tante presenze sui campi sportivi, per semplici premiazioni o cene societarie. Avevo però raggiunto solo una conoscenza formale, così a metà mandato ho sentito l’esigenza di fare un tour di alcune società, chiedendo loro di presentarmi la loro realtà, tralasciando i problemi contingenti (spazi e risorse inadeguati), ma raccontandomi la “filosofia” del loro agire sportivo. Per cercare di recuperare un linguaggio comune avevo spedito una traccia di lavoro, in cui chiedevo lo statuto, la programmazione, il rapporto con i genitori… Inoltre chiedevo di incontrare non solo i presidenti, ma tutti i collaboratori della associazione: dirigenti, allenatori, accompagnatori, perché ognuno potesse raccontarmi il suo ruolo.
E’ stato un tour impegnativo, prima di tutto perché mi esponevo personalmente (e non vi dico l’imbarazzo), senza competenze specifiche, solo con la mia passione per la dimensione
educativa dello sport. Alla fine dell’incontro infatti cercavo di tirare le fila della loro esposizione, mettendo in luce alcuni spunti di riflessione, che nascevano (e non l’ho mai nascosto) dai congressi e dalle Summer School di Sportmeet. La paura che avevo era quella di parlarci addosso per una sera, andando a casa con l’amarezza che poi nulla sarebbe cambiato. Invece laddove incontravo una società che aveva raccolto l’invito con entusiasmo, è sempre nata una bella discussione costruttiva, anche se sul momento non si trasformava in proposte concrete. Altre volte invece l’invito non è stato colto con la medesima partecipazione, e ci si è persi a “dare la colpa al sistema”, ma anche questo mi ha fatto capire il livello (un po’ scarso) di approfondimento culturale di quella società.
In alcuni casi avevo volutamente scelto di incontrare nella stessa serata società che praticano la medesima disciplina, nate magari da fratture di una società madre. A metà di un incontro un dirigente si è alzato e, brontolando, stava per andarsene, perché gli sembrava venisse dato spazio solo all’altra società. Non vi dico la tensione di quel momento, ma quella sera stessa qualcuno poi mi ha ringraziato perché era la prima volta dopo la frattura di vent’anni addietro che le due società si erano sedute allo stesso tavolo.
Questo giro mi ha permesso di conoscere più a fondo le realtà faentine, ma anche di far conoscere a loro il mio interesse a un confronto su un piano culturale/educativo che non si sarebbero aspettati dall’amministrazione (se non a parole).
Era l’autunno 2012 e tutto sembrava finito lì, sennonché, esattamente un anno dopo, la Regione ha emanato un bando per finanziare progetti sportivi educativi e una associazione mi ha interpellato chiedendomi di coinvolgere altre società per costruire un progetto insieme, proprio perché avendo fatto quel tour avevo il polso della situazione. Abbiamo presentato un progetto sulla multidisciplinarietà con 21 associazioni di tutta la provincia, alcune più preparate insieme ad altre che mi avevano esplicitato proprio la necessità di una maggior formazione pedagogica. E siamo arrivati primi su tutta la regione, con un finanziamento del 90% assolutamente inaspettato.
Ovviamente 21 associazioni su tutta la provincia possono sembrare poche e qualcuno si è lamentato che io sostenessi così tanto un progetto “privato” di qualche associazione, ma sono convinta che per quei tecnici che in questi 6 mesi stanno lavorando insieme sarà l’occasione per conoscersi, comprendersi e continuare a fare proposte positive e costruttive tra le società e nei confronti dell’amministrazione!

Immaginiamo che avrai trovato non pochi ostacoli nell’agire in questo modo e che forse non tutti possano essere rimasti contenti…
E’ così: e questo è il secondo punto: non entrare e soprattutto non fomentare la logica dell’uno contro l’altro.
A mie spese purtroppo mi sono accorta che in alcuni casi c’è una lotta atavica tra due società, che spesso praticano la stessa disciplina portandosi via vicendevolmente i bambini. E’ il caso del basket femminile a Faenza, dove due società, che devono condividere la stessa palestra, si fanno la guerra. A inizio anno, per vari motivi, ho tolto uno spazio a una per darlo all’altra. E’ stata una scelta sbagliatissima, ho scatenato una vera e propria guerra e non passa settimana senza che io non riceva una mail di una società che si lamenta dei dispetti dell’altra e viceversa. Ho capito che non devo mai entrare nella dinamica di scontro delle società sportive, e che piuttosto tra i due litiganti è sempre meglio aiutare una terza società, in modo da rompere la catena di contrapposizione tra due e la logica di ascoltare chi urla più forte.
Qualche mese dopo mi è capitata una situazione simile tra due associazioni di ciclismo, una
faentina e una di un paese vicino. Dopo un anno di lavoro comune, a causa di litigi interni tra dirigenti, hanno deciso di sciogliere la collaborazione e questo ha portato sul mio tavolo
la richiesta di medesimi spazi e orari della pista di avviamento al ciclismo. Dopo alcuni incontri privati per dar modo a ciascuna società di raccontarmi la propria visione, ascoltandoli fino in fondo, ho convocato tutte le società utilizzatrici dell’impianto (3 di Faenza e quella di Castello), dicendo che bisognava trovare una soluzione di condivisione dell’impianto perché sufficientemente ampio per tutti. La cosa più brutta è stato sentire che nessuna società era disposta a rinunciare a un po’ del proprio spazio, salvo che io non li obbligassi d’ufficio. Il livello della discussione era imbarazzante, così ho alzato la voce e ho detto chiaramente che mi vergognavo di assistere a quella riunione e mi chiedevo quale insegnamento educativo potessero infondere ai ragazzi se quella era la capacità di relazionarsi dei dirigenti. Dopo il mio chiaro rimprovero, due società hanno rinunciato ad alcuni spazi, risolvendo in pochi minuti la situazione. Onestamente mi sono chiesta se fosse stato giusto arrabbiarmi, ma la risposta l’ho avuta alcune settimane dopo quando ad una cena sportiva uno dei dirigenti ha raccontato a tutto il tavolo di come gli fossi piaciuta in quella occasione, perché non si aspettava da me un atteggiamento così autorevole.
Dal suo discorso ho compreso che mi ero potuta permettere di essere dura perché non avevo parteggiato per nessuno di loro, ma avevo chiesto a ciascuno di mettersi di fronte alle responsabilità comuni. Inoltre ho capito che con quei piccoli atti d’amore quotidiani (ascoltare i problemi, andare alle premiazioni…) sono riuscita a costruire un po’ di linguaggio comune, che mi ha restituito tanta fiducia e autorevolezza da parte delle associazioni.